Se una persona si sente sola, ma sa che non si trova bene con gli altri, come risolve?
Questa è una domanda profonda, quasi un paradosso esistenziale: desiderare compagnia, ma non trovarsi bene con essa.
È una condizione più diffusa di quanto sembri, e tocca una tensione interiore tra bisogno di connessione e desiderio di protezione. Non è “sbagliata”, è umana.
Proviamo a capire l’origine del senso di solitudine
1. Sentirsi soli non equivale ad essere fisicamente soli
La solitudine non è solo mancanza di persone, è assenza di un legame significativo, anche con se stessi. Uno può essere in mezzo agli altri e sentirsi invisibile, o essere da solo e sentirsi in pace.
Quindi la prima domanda è:
Di che tipo è la tua solitudine? Ti manca qualcuno, o ti manca qualcosa in te?
2. “Non mi trovo bene con gli altri”
Potrebbe voler dire tante cose:
- Ti senti giudicato, fuori posto?
- Ti sembrano superficiali, stanchi, distratti?
- Hai interessi diversi, sensibilità che non trovi rispecchiate?
- Ti proteggi per evitare delusioni o dolore?
Spesso, dietro a questo disagio, c’è una ferita relazionale non guarita. Allora ogni relazione nuova diventa un campo minato.
3. Come si risolve?
Non con una bacchetta magica. Ma ci sono vie lente, concrete:
- Iniziare da relazioni basse in intensità ma alte in autenticità.
Non serve subito un migliore amico. Un conoscente con cui scambiare due parole vere conta di più di dieci interazioni vuote. - Coltivare la solitudine attiva, non quella passiva.
Essere soli facendo cose che nutrono: camminare, leggere, scrivere, ascoltare musica, creare. Ti aiuta a riconnetterti con te stesso, che è il primo passo per riconnetterti con gli altri. - Trovare ambienti compatibili con il tuo ritmo e modo di sentire.
Non tutte le relazioni si costruiscono in bar o chat rumorose. Certe anime si incontrano meglio nei silenzi condivisi di una libreria, o in un laboratorio di ceramica. - Fare pace con la selettività.
Non è un limite non piacerti “stare con tutti”. È una forma di sensibilità e questo è importante riconoscerlo, senza colpevolizzarsi o sentirsi strani. Tuttavia, vale anche la pena imparare a non chiudere prima di aver davvero conosciuto.
A volte il ponte tra la solitudine e la connessione non è fatto di grandi gesti, ma di piccoli passi sinceri.
La solitudine interiore può nascere – e spesso nasce – dall’autopunizione
Non sempre in modo evidente. A volte si maschera da distacco, da “non ho bisogno di nessuno”, da “sto meglio da solo”. Ma sotto c’è spesso una voce più profonda, più dura, che dice:
“Non merito compagnia.”
“Non valgo abbastanza per essere visto, scelto, amato.”
“Devo stare solo perché ho fatto (o sono) qualcosa di sbagliato.”
Cos’è l’autopunizione?
È un meccanismo psicologico in cui la mente (o il cuore) si convince che il dolore sia dovuto, persino necessario. Non sempre in forma conscia. Può esprimersi così:
- Evitare il contatto anche quando lo desideri.
- Sabotare legami che iniziano a funzionare.
- Cercare sempre relazioni che confermino il tuo senso di inadeguatezza.
- Imporsi isolamento, fatica, privazioni “perché sì”.
Da dove nasce?
- Da colpe non elaborate (vere o percepite).
- Da vergogna interiorizzata: una forma più profonda e corrosiva della colpa.
- Da modelli familiari dove l’amore era condizionato al rendimento, alla perfezione, al silenzio.
- Da esperienze di rifiuto, tradimento o trauma che ti hanno lasciato con l’idea che tu sia “di troppo”.
Ma allora come se ne esce?
Con molta gentilezza verso se stessi, che non è debolezza, ma forza maturata nel dolore. Alcune vie:
- Nomina il giudice interiore.
Dai un volto o un nome a quella voce che ti punisce. Non sei tu. È solo una parte appresa. Può essere ascoltata, ma non deve decidere. - Interrompi il ciclo di punizione con piccoli atti di cura.
Anche solo prepararti una cena con attenzione, o uscire a prendere aria. Ogni gesto di cura è una forma di disobbedienza alla condanna. - Parla della tua solitudine a qualcuno che sa ascoltare senza correggerti.
Un amico vero, un terapeuta, o anche scrivendo. L’autopunizione si indebolisce quando viene portata alla luce senza paura. - Sostituisci la colpa con la responsabilità.
Se hai fatto errori, puoi riconoscerli e riparare – ma non hai bisogno di pagare con la solitudine eterna. Il dolore non redime. La consapevolezza sì.
“La solitudine è uno spazio sacro quando nasce dal rispetto.
Ma diventa una cella, quando nasce dalla condanna.”
E tu meriti di abitare una casa, non una prigione.










