Sat Cit Ananda: il significato spiegato dal maestro Arnaud Desjardins. Tratto dal libro “Il Vedanta e l’inconscio. – Alla ricerca del Sé” (Ubaldini Editore).

“Ciò che spiegherò oggi verte su tre concetti noti a chiunque abbia una minima idea dell’induismo: sat, cit e ananda. In tutti i libri sul Vedanta leggerete che, nella misura in cui si può dire qualcosa sulla Realtà suprema, tale realtà è sat, cit e ananda, traducendo il primo con ‘essere’, il secondo con ‘Coscienza’ e il terzo con ‘beatitudine’.

Queste tre parole possono avere un’importanza concreta e aiutarvi lungo il cammino? Peraltro, conoscete certamente lo ‘yoga della conoscenza’, jnana yoga, che è diverso da quello dell’azione o della devozione. In linea di principio, esso non comprende alcun culto, preghiera, rito o funzione, e il suo nome è fonte di equivoci, perché di primo acchito è impossibile comprendere cosa significa. Non credo che esista un europeo capace di non sbagliarsi la prima volta che legge ‘yoga della conoscenza’, riferendolo alla conoscenza abituale, quella che abbiamo accumulato a scuola. Si tratta invece di quella di cui parlano in più occasioni le Upanisad, della cognizione di Quello che, una volta noto, fa sì che sia conosciuto tutto il resto.

Se siete dei chimici, conoscerete la formula dell’acqua e quindi il segreto di tutte le onde esistenti, ovunque siano e sotto qualsiasi forma si presentino. Questo yoga della conoscenza è ciò che permette di conoscere la Realtà, ovvero Quello che è di per sé, indipendentemente dal resto che non sia se stesso, che non ha inizio o fine. Quello che non è mai nato, non è formato da alcunché, non ha storia, è ‘increato, non composto e non divenuto’, infinito, non immensamente grande, ma né grande né piccolo, immutabile. E’ quanto è stato definito brahman, atman, natura-di-buddha, vita eterna o regno dei cieli, citato nel Vangelo di Tommaso, da poco scoperto ma di cui nessuno contesta l’autenticità: “Il Regno dei cieli è dentro di voi, ma anche fuori di voi”.

Se questa Realtà che percepiamo grazie allo yoga della conoscenza, è davvero come l’ho descritta, polverizza totalmente la distinzione, per noi essenziale, tra l’io e quello che non è io. La distinzione tra noi e quello che non è noi scompare una volta scoperta tale Realtà, che è l’essenza del tutto, di noi stessi e di tutto quanto ci circonda.

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La vera conoscenza non può essere acquisita con la mente razionale

Questa conoscenza può essere non acquisita, ma compresa mediante la buddhi, vera intelligenza. Se si parla di conoscenza acquisita, come capita per ogni forma cognitiva di cui abbiamo esperienza, essa sarà di una natura tale da eludere quel che ho appena detto: rappresenterebbe la divisione tra colui che non la possedeva e l’ha ricevuta quale effetto di un certo numero di cause, da una parte, e la conoscenza stessa, dall’altra. Ci sono io e le nozioni del Vedanta, per esempio. Possedere nozioni sul Vedanta non significa raggiungere la Conoscenza. Questa si confonde con l’essere; non è qualcosa che si ha, ma che ci è. To know is to be, conoscere significa essere, come del resto affermano a più riprese le Upanisad: “Conoscere il brahman significa esserlo”. La facoltà che ci permette di avvicinare tale conoscenza è la buddhi, oppure ciò che chiamiamo viveka, la discriminazione.

Dunque, cosa significa Sat Chit Ananda?

Sat: se con la discriminazione si riesce ad eliminare tutto ciò che è secondario, relativo, effimero, avventizio, si finisce sempre con un’unica realtà, che non cambia, che è esattamente la stessa ovunque, della quale a rigore non possiamo dire altro che “è”.

Chit: se cerchi sempre più profondamente dentro te stesso, scoprirai il Soggetto ultimo che non può diventare oggetto di coscienza per nient’altro, la coscienza ultima che può percepire i fenomeni ma che essa stessa non può essere percepita dal nulla. Non possiamo andare più in profondità. Questo Soggetto è cosciente e, se questo Soggetto non è cosciente di qualcosa, non è cosciente di un oggetto, è cosciente di se stesso, cosciente punto. È una coscienza non dualistica, che va oltre la distinzione di soggetto e oggetto e che va oltre i tre termini: il conoscente, il conosciuto e l’atto di conoscenza che li riunisce. Se ho conoscenza del micro, c’è il micro che è il conosciuto, ci sono io che sono il conoscente e c’è una certa relazione tra noi che è conoscenza. Quindi ci sono tre termini. Ma, se non c’è che il conoscente o il Soggetto, questi tre termini vengono superati dentro di noi, vale a dire che rimane solo la coscienza, il Soggetto ultimo, di cui non possiamo dire altro che “è”.

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Ananda: è questa gioia che è la tua vera natura, ma che cerchi nel viaggio, nell’avventura, nell’amore, nel successo, o nel voler sfuggire al suo opposto, la malattia, l’oppressione, il fallimento, la tristezza, la paura. Questa gioia che tutti cercano si rivela lì, assoluta. Una gioia non nata, non fatta, non diventata, non composta, non relativa, che non dipende da nulla. Questa gioia non dipendente è il terzo aspetto di “Quello”, tat in sanscrito, di cui non si può dire altro che asti, “è”.

Una storia racconta di un uomo, grande meditante, che dopo la morte vede apparire dio. Questi lo minaccia e il meditante gli dice: “Non hai alcuna realtà tranne il sat, cit e ananda, che è anche la mia realtà. Io sono te, tu sei me”. Allora la divinità minacciosa scompare. Se esiste qualcosa, ovunque sia, su questa terra, in cielo o in paradiso, non ha altra realtà che sat. […]

Il Vedanta e l'Inconscio
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Io e non-io sono illusioni

Sat, cit e ananda sono la realtà del tutto. La distinzione fra io e non io è illusoria, fa parte del sogno. Ecco perché pur riconoscendo l’esistenza di mondi, cieli, paradisi, inferni e purgatori, induisti e buddhisti dicono che bisogna superarli tutti.

Andare nel paradiso di Visnu è un ideale molto limitato, la semplice intensificazione della felicità, il cui contrario è l’infelicità, finché non si attingerà alla visione reale, trascendente, qui e ora, e tutto il sogno finirò. Oppure, se preferite, finché la realtà non sarà più concepita come sogno e ci sarà solo l’UNO: il cambiamento è sogno, la nascita è sogno, la morte ne fa parte, il successo è sogno e lo è il fallimento, l’altro è un sogno, io sono un sogno. Un’unica realtà regna suprema, sat-cit-ananda, Essere-Coscienza-Beatitudine.

Tutto è Quello: la Realtà suprema è ogni cosa

Forse tutto questo vi parrà nuovo, sconcertante, incomprensibile: non ha niente a che vedere coi miei problemi, direte, ciò che mi concerne sono le mie sofferenze, paure ed emozioni, i miei desideri. Un giorno capirete che quanto vi riguarda davvero è quello di cui ho trattato finora.

Dietro ogni paura, ogni desiderio, ogni problema, dietro tutto ciò che costituisce la vostra vita, c’è Quello. Non c’è contrasto, non si tratta di un brutale ‘l’uno o l’altro’, non si tratta di restare in questo mondo o ritirarsi in convento. La questione non si pone in tali termini. Ma in quelli del sempre più lontano, sempre più in profondità. Non rimanete in superficie, non fermatevi durante il cammino. Muovete dalla situazione attuale: io amo, desidero, ho paura, soffro, ne ho abbastanza, vorrei. Bene. Chi vuole? Chi soffre? Chi ha paura? Perché soffro? Perché ho paura? Perché desidero? Cos’è tutto questo? Ciò comincia con la nascita, dura fino alla morte (dieci minuti prima di morire coltiverete ancora un desiderio o nutrirete un timore) e finisce. Che esistenza è questa? Eppure, tutto ciò di cui sto parlando è qui. Non è nei lontani cieli, è nelle vostre più intime profondità, nel più profondo di quel che vi circonda. E’ ciò che fa esistere tutto il resto, che si esprime più o meno maldestramente e dolorosamente nel resto, ciò verso cui tende più o meno conscientemente tutto il resto. E’ la Realtà, quella suprema, a patto di non fermarsi lungo il cammino.

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Tutto quanto cercate nell’attrazione e nella repulsione, nella paura e nel desiderio, è sempre questo atman, questa Realtà.

Discriminare fra spettatore e spettacolo: essere vigili

Cosa potete quindi desumere dalle mie frasi? Che occorre discriminare tra spettatore e spettacolo, che non bisogna essere confusi, travolti, sempre commossi. Occorre essere vigili. Distinguere spettatore e spettacolo significa essere desti, presenti a se stessi, come insistono a dire tutti gli insegnamenti. Ma questa lucidità (parola che deriva da ‘luce’), questa coscienza e vigilanza devono essere anche neutre, il più serene possibile, devono essere un testimone, altrimenti vi farete di nuovo intrappolare nello schema dell’attrazione e della repulsione. La vigilanza deve essere del tutto impersonale, imparziale, simile a uno specchio, non escludere alcunché, né rifiutare o eliminare nulla. Allora non ci saranno più amici o nemici, quelli che vi proteggono e quelli che vi minacciano. Tutti gli uomini saranno visti esattamente come sono, in una percezione giusta, non colorata soggettivamente.

Dentro di voi dovrete poter prendere coscienza in modo neutro, impersonale, di tutti i fenomeni che vi costituiscono e coi quali vi siete finora confusi, identificati. E poco alla volta, spingendovi sempre più a fondo, scoprirete il Soggetto supremo, che non può essere oggetto di conoscenza o di coscienza per nient’altro, e che quindi è Coscienza pura, consapevole di sé, e di cui tutto, fuori e dentro di voi, è solo una manifestazione effimera.

Iniziate ad aprirvi a tale verità. Essa vi riguarda.”

(‘Il Vedanta e l’inconscio – Alla ricerca del Sé.’Arnaud Desjardins)

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