Pensiero Zen del giorno: dualismo bene male.

Estratto dal libro “La Via dello Zen” di Alan W. Watts.

Vuoto e meraviglioso

L’inizio della più antica poesia zen dice:

La perfetta Via (Tao) è priva di difficoltà,

Salvo che evita di preferire e di scegliere.

Solo quando siate liberi da odio e da amore

Essa si svela in tutta la sua chiarezza.

Una distinzione sottile come un capello

E cielo e terra sono separati!

Se volete raggiungere la perfetta verità,

Non preoccupatevi del giusto e dell’ingiusto.

Il dissidio fra giusto ed ingiusto

E’ la malattia della mente.

Il problema non è di sforzarsi di ridurre al silenzio i sentimenti e di coltivare una serena indifferenza. E’ di vedere al di là dell’universale illusione che ciò che è piacevole o buono può essere strappato da ciò che è penoso o male. Era un primo principio nel taoismo che:

Al mondo tutti sanno il bello che è bello

e per contrapposto il brutto

tutti sanno il bene che è bene

e per contrapposto il male

perciò essere o non essere si producono (a vicenda)

il difficile e il facile si completano (a vicenda)

il lungo e il corto si caratterizzano (a vicenda)

l’alto e il basso si differenziano (a vicenda)

il suono e il tono si accordano (a vicenda).

Percepire questo equivale a percepire che il bene senza il male è come il sopra senza il sotto, e che proporsi l’ideale di ottenere il bene è come cercare di evitare la sinistra volgendosi costantemente a destra. Si è quindi costretti a girare in cerchio.

La logica di questo concetto è così semplice che si è tentati di considerarla troppo semplice. La tentazione è di tanto più forte di quanto questa logica stravolge la più appassionata illusione della mente umana: che nel corso del tempo ogni cosa possa migliorare. Giacché è opinione generale che se questo non fosse possibile la vita dell’uomo sarebbe priva di scopo. L’unica alternativa a una vita di continuo progresso è sentita come un’esistenza scialba, statica e morta, così povera di gioia e così vana che tanto varrebbe sopprimerci. La stessa nozione di questa “unica alternativa” rivela come la mente sia saldamente vincolata a un criterio dualistico, e come sia arduo pensare in altri termini che non siano buono o cattivo, o una confusa mescolanza dei due.

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Senso di relatività

Nondimeno lo zen è una liberazione da questo modello, e il suo apparentemente malinconico punto di partenza è di capire la vanità della scelta, l’assurdità della sensazione che la vita possa essere migliorata da una costante selezione del “bene”. Si deve iniziare con la “conquista del senso della relatività”, e col riconoscimento che la vita non è un pretesto per afferrare e per guadagnare, come se fosse qualcosa cui uno s’accosta dall’esterno, al pari di una pizza o di un barile di birra. Avere successo significa sempre fallire, nel senso che più uno ha successo in qualche cosa, e maggiore è il bisogno di continuare ad avere successo. Mangiare è sopravvivere per aver fame.

Si conosce per contrasti

L’illusione di migliorare sorge in momenti di contrasto come quando ci si rivolta dalla sinistra alla destra su di un letto duro. La posizione è “migliore” finché dura il contrasto, ma a lungo andare la seconda posizione comincia a dar fastidi come la prima. Così si compra un letto più comodo e, per un po’, si dorme in pace. Ma la soluzione del problema lascia uno strano vuoto nella propria coscienza, un vuoto presto colmato dalla sensazione di un altro intollerabile contrasto, fin qui inavvertito e altrettanto opprimente, altrettanto frustrante come il problema del letto duro. Il vuoto sorge perché la sensazione di comodità può essere mantenuta solo in relazione alla sensazione di scomodità, così come un’immagine è visibile all’occhio solo in virtù di uno sfondo contrastante. Il bene e il male, il piacevole e il penoso sono così inseparabili, così identici nella loro differenza – come le due parti di una moneta – che:

il bello è brutto, e il brutto è bello

o, come nelle parole di una poesia dello Zenrin Kushu

Ricevere guai è ricevere buona fortuna;

Ricevere consenso è ricevere opposizione.

Lo zen non dichiara, per questa ragione, che mangiare quando si ha fame è così futile che tanto vale languire, e non è così disumano da affermare che quando abbiamo prurito non dovremmo grattarci. La disillusione della ricerca del bene non implica, come sua necessaria alternativa, il male della stasi, poiché la situazione umana assomiglia a quella di “pulci su di una piastra che scotta”. Nessuna delle alternative offre una soluzione, poiché la pulce che cade deve saltare, e la pulce che salta deve cadere. Scegliere è assurdo perché non vi è scelta.

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Alla dualistica maniera del pensiero parrà quindi che il punto di vista dello zen è quello del fatalismo come opposto alla libera scelta. Quando fu chiesto a Mu-chou: “Noi ci vestiamo e mangiamo ogni giorno, e come sfuggiremo al bisogno di indossare abiti e di mangiare cibo?”. Egli rispose: “Ci vestiamo; mangiamo”. “Non capisco”, replicò il monaco. “Se non capisci indossa i tuoi abiti e mangia il tuo cibo.” […]

La Via dello Zen

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Lo zen non è fatalismo

Ma il punto di vista non è fatalistico. Non è semplicemente sottomissione all’inevitabilità del sudare quando fa caldo, del rabbrividire quando fa freddo, del mangiare quando si ha fame, e del dormire quando si è stanchi. La sottomissione al fato implica qualcuno che si sottometta, qualcuno che sia l’impotente marionetta delle circostanze, e per lo zen una tale persona non esiste. La dualità di soggetto e oggetto, del conoscente e del conosciuto, è vista così relativa, così reciproca, così inscindibile come ogni altra cosa. Noi non sudiamo perché fa caldo; il sudore è il caldo. E’ esattamente lo stesso affermare che il sole è luce a motivo degli occhi quanto affermare che gli occhi vedono la luce a motivo del sole. Il punto di vista è inconsueto perché è nostra salda convinzione pensare che il caldo viene prima e poi – per causalità – il corpo suda. Presentare il concetto in modo inverso è strabiliante.

[…] Per usare parole meno poetiche, l’esperienza umana è determinata tanto dalla natura della mente e dalla struttura dei sensi quanto dagli oggetti esterni che la mente rivela. Gli uomini si sentono vittime o marionette della loro esperienza per il fatto che essi separano “se stessi” dalla loro mente, ritenendo che la natura della mente-corpo sia qualcosa di involontariamente sovrapposto a “loro”. Pensano che non hanno chiesto di nascere, non hanno chiesto di essere dotati di organismo sensitivo per essere frustrati dall’alternarsi di piacere e pena. Ma lo zen ci chiede di scoprire “chi” è che “ha” questa mente, e “chi” fu che non chiese di nascere prima che padre e madre ci concepissero. Di qui si dimostra che l’intero senso di isolamento soggettivo, di essere uno cui fu “data” una mente e a cui succedono delle esperienze, è un’illusione semantica, la suggestione ipnotica di un ripetuto errore di pensiero. Poiché non esiste un “me stesso” separatamente dalla mente-corpo che conferisce una struttura alla mia esperienza. E’ altrettanto ridicolo parlare di questa mente-corpo come di qualcosa che “accolse” passivamente e involontariamente una certa struttura. Essa è quella struttura e prima che sorgesse la struttura non esisteva mente-corpo.

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L’io è solo un’idea

Il nostro problema è che il potere del pensiero ci pone in grado di costruire simboli indipendentemente dalle cose stesse. Questo implica l’attitudine di creare un simbolo, un’idea di noi stessi prescindendo da noi stessi. Poiché l’idea è tanto più comprensibile della realtà, il simbolo tanto più stabile del fatto, noi impariamo a identificarci con la nostra idea di noi stessi. Di qui la soggettiva sensazione di un “sé” che “ha” una mente, di un soggetto intimamente isolato cui le esperienze capitano involontariamente. Con il suo tipico amore per il concreto, lo zen pone in rilievo che il nostro “io” è solo un’idea, abbastanza utile e legittima se vista per quello che è, ma disastrosa se identificata con la nostra vera natura.

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