Come liberarsi dalla sofferenza – Jiddu Krishnamurti.

Di solito viviamo in un mondo mitico, simbolico, falso, che però reputiamo molto più importante della realtà. Poiché non comprendiamo il mondo reale della vita quotidiana, con le sue infelicità e i suoi tormenti, cerchiamo di evitarlo dando vita a un mondo illusorio, un mondo di dèi, simboli, idee e immagini. Tuttavia, laddove c’è una fuga, uno spostamento dalla realtà all’illusione, c’è sempre contraddizione e dolore. Se vogliamo essere liberi dalla sofferenza, dobbiamo necessariamente comprendere appieno il mondo illusorio in cui ci rifugiamo di continuo.

Gli Induisti, i musulmani, i buddhisti o i cristiani hanno il loro mondo illusorio pieno di simboli e immagini, e ne sono prigionieri. I loro simboli diventano assai più significativi e importanti della vita stessa; si depositano nell’inconscio e svolgono un ruolo immenso nella vita di tutti coloro che appartengono a una delle diverse culture, civiltà o religioni organizzate. Quindi, se vogliamo essere liberi dalla sofferenza, penso che sia importante, prima d’ogni altra cosa, comprendere il mondo illusorio in cui viviamo.

I vari tipi di sofferenza

Camminando per strada possiamo osservare lo splendore della natura, la straordinaria bellezza dei campi verdi e dei cieli aperti, e possiamo ascoltare anche le risate dei bambini. Ma nonostante tutto ciò, c’è un senso di sofferenza. Può essere l’angoscia di una donna in attesa di un bambino, oppure la sofferenza della morte; può essere la sofferenza dovuta a qualcosa che attendiamo e che si fa aspettare, oppure la sofferenza di una nazione che crolla e va in rovina; può essere ancora la sofferenza della corruzione, non solo a livello collettivo, ma anche a livello individuale.

Se osserviamo attentamente, scopriamo che c’è sofferenza anche nell’ambito della nostra famiglia; c’è la sofferenza dell’insoddisfazione, della propria meschinità o incapacità, e ci sono anche vari livelli di sofferenza inconscia.

Nella vita c’è anche spazio per il riso. Ridere è una bellissima cosa: ridere senza ragione, avere il cuore pieno di gioia senza motivo, amare senza aspettarsi nulla in cambio. Tuttavia ci capita assai raramente di ridere in tale modo. Siamo appesantiti dalla sofferenza; la nostra vita è un susseguirsi di infelicità e conflitti, una continua disintegrazione, e non giungiamo quasi mai a sapere cosa vuol dire amare con tutto il nostro essere.

Possiamo osservare il riprodursi della sofferenza in ogni strada, in ogni casa, in ogni cuore umano. C’è infelicità, gioia passeggera, un graduale deterioramento mentale, e siamo sempre in cerca di una via di scampo. Vogliamo scovare una soluzione, un mezzo o un metodo grazie al quale alleggerirci del fardello della vita. Ecco perché non guardiamo mai direttamente la sofferenza. Cerchiamo di sfuggirla con i miti, le immagini, la speculazione; speriamo di trovare un modo per schivare questo peso, per tenerci fuori dalla portata dell’onda della sofferenza.

Saper riconoscere la sofferenza

Penso che tutto ciò ci sia ben familiare. Non sto cercando di addestrarvi a soffrire. Sarebbe assurdo se tentaste di sperimentare la sofferenza mentre mi ascoltate, all’istante, oppure se provaste a essere lieti: non avrebbe alcun senso. Tuttavia è inevitabile che, osservando la limitatezza, la bassezza, la meschinità della nostra vita, con i suoi incessanti contrasti, i fallimenti, i molti sforzi che conducono soltanto a un senso di frustrazione, giungiamo infine a sperimentare quella realtà che chiamiamo “sofferenza”.

Dobbiamo saper riconoscere la sofferenza, a qualsiasi livello si manifesti, per quanto impercettibile o profonda essa sia. La sofferenza ci segue come un’ombra, e sembra che non siamo capaci di liberarcene. Vorrei quindi, se non vi dispiace, discutere con voi la cessazione della sofferenza.

Percepire la realtà senza giudizio

E’ possibile far cessare la sofferenza, ma tale risultato non può essere raggiunto con un sistema o un metodo. Se percepiamo la realtà così com’è non c’è sofferenza. Quando comprendiamo con estrema chiarezza la natura della realtà, sia che si tratti del fatto che la vita non ci soddisfa mai pienamente, che si tratti della morte di un figlio o di un fratello, di un coniuge, penso si possa dire che ci sia cessazione della sofferenza. Ciò è dovuto al conoscere quel fenomeno per ciò che è realmente, senza interpretarlo, senza nutrire opinioni in merito, senza alcuna concettualizzazione, alcun ideale o giudizio. Tuttavia la maggior parte di noi vuole la paura, vuole la scontentezza, vuole la soddisfazione.

Vi prego di non limitarvi ad ascoltare quanto viene detto, ma di essere consapevoli di voi stessi: osservate la vostra vita come si trattasse di un volto riflesso in uno specchio. In uno specchio potete osservare ciò che è, il vostro volto, senza distorsioni. Vi invito dunque a fare lo stesso ora, osservandovi senza esprimere giudizi o apprezzamenti, senza dover accettare o negare ciò che vedete. Non fate altro che osservare, e scoprirete che la volontà della paura domina la vostra vita. Se c’è tale volontà, la volontà di agire, l’insoddisfazione, la brama di realizzarsi, di soddisfare i propri bisogni, c’è senz’altro paura.

Volontà, paura, conflitto

Paura, volontà e sofferenza sono legate l’una all’altra, non si tratta di fenomeni separati. Dove c’è volontà c’è paura; dove c’è paura c’è sofferenza. Per volontà intendo la determinazione a essere qualcosa, la determinazione a ottenere, a diventare, quel genere di determinazione che nega o accetta.

Sicuramente ci sono diverse forme di volontà, non vi sembra? Perché dove c’è volontà c’è conflitto.

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Osservate tutto ciò e cercate di comprendere anche le implicazioni. Se non comprendete le implicazioni della volontà, non potrete capire la sofferenza.

La volontà è il risultato delle contraddizioni del desiderio: direi che nasce dalle spinte conflittuali dell'”io voglio” e dell'”io non voglio”. Le diverse necessità, con le loro contraddizioni e reazioni, creano la volontà della soddisfazione, o dell’insoddisfazione, e in tale volontà c’è paura. E’ sicuramente il voler ottenere, essere, divenire che genera la sofferenza.

Cosa si intende per sofferenza?

Cosa intendiamo per sofferenza? Prendiamo a esempio un bambino, con un bel viso e che goda di buona salute, con i suoi begli occhi luminosi e intelligenti, e un sorriso felice. Crescendo deve subire il processo della cosiddetta ‘educazione’. Viene istruito a conformarsi a un particolare schema sociale, e quella felicità, quella spontanea gioia di vivere, viene distrutta. E’ triste che debbano accadere cose del genere, non vi pare? E’ triste che si debba perdere qualcuno che si ama. E’ triste comprendere di aver reagito a tutte le sfide della vita in modo meschino, mediocre. E non vi sembra triste che l’amore finisca in una misera palude, isolata dal vasto fiume della vita? E’ triste anche quando si finisce per essere dominati dall’ambizione, cosicché qualsiasi cosa si ottiene si trasforma in frustrazione. E’ triste constatare quanto sia piccola la mente; non la mente di qualcun altro ma la nostra!

Per quanto ci sia possibile acquisire un’enorme conoscenza, per quanto possiamo essere molto intelligenti, acuti ed eruditi, la mente è comunque molto meschina, vuota. Comprenderlo comporta un senso di tristezza, di dolore.

Tuttavia c’è un genere di tristezza ancora più profonda di tutte queste: la tristezza generata dalla comprensione della solitudine, del proprio isolamento. Capita che ci troviamo tra amici, in mezzo alla folla, a una festa, oppure stiamo parlando con nostra moglie o nostro marito, e improvvisamente diventiamo consapevoli di una sconfinata solitudine: c’è un senso di completo isolamento, che genera dolore. Per non parlare poi della sofferenza generata dalla malattia.

Sappiamo bene che tutte queste forme di sofferenza esistono. Forse non le abbiamo sperimentate tutte, ma se siamo attenti, consapevoli della realtà dell’esistenza, sapremo che ci sono, e la reazione più comune sarà cercare di sfuggirle. Non vogliamo comprendere la sofferenza, né intendiamo scrutarla. Non ci chiediamo mai: “Ma in fondo di cosa si tratta?” L’unica cosa che ci importa è sfuggire a tutto quel dolore. Non è affatto innaturale; si tratta della reazione istintiva del desiderio; tuttavia l’accettiamo come se fosse inevitabile, e in tal modo la fuga diventa assai più importante della realtà stessa della sofferenza. Nello sfuggire alla sofferenza ci perdiamo nel mito, nel simbolo, cosicché non indaghiamo mai per scoprire se sia possibile far cessare la sofferenza.

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Le vie di fuga alla sofferenza

Dopotutto, la vita è un susseguirsi di problemi. Un minuto dopo l’altro ci vengono proposte nuove sfide. Se la nostra risposta è inadeguata, tale inadeguatezza alimenta un senso di frustrazione. Ecco perché le diverse vie di fuga sono diventate così importanti, almeno per la maggior parte degli esseri umani. Una via di fuga utilizza le religioni organizzate e le forme di credo; un’altra i simboli, le immagini, fissati dalla mente o incisi con le mani. Se non riusciamo a risolvere i problemi in questa vita, c’è sempre la prossima. Se non siamo capaci di estinguere la sofferenza, possiamo perderci nei divertimenti, oppure, se siamo un po’ più seri, indirizzarci alla lettura e acquisire nuove conoscenze. Un’altra via di fuga viene dal mangiar troppo, dal parlare senza sosta, dal discutere, dal deprimersi. Sono tutte vie di fuga; diventano non solo straordinariamente importanti, ma anche motivo di lotta: la mia religione e la tua, la tua ideologia e la mia, i tuoi rituali e il mio anti-ritualismo.

Osservare la realtà

Per favore osservatevi, senza farvi incantare dalle mie parole. Dopotutto non sto parlando di astratte teorie: si tratta della nostra vita, così come la viviamo realmente giorno dopo giorno. Vi sto descrivendo la realtà, tuttavia non dovreste accontentarci della descrizione. Mantenete la consapevolezza di ciò che siete mentre continuo la descrizione, e potrete rendervi conto di come la vostra vita sia presa in trappola fra tante diverse vie di fuga. Ecco perché è così importante osservare la realtà, considerare, esplorare, penetrare in ciò che è, perché ciò che è non ha tempo, non ha futuro.

Ciò che è, è eterno. Ciò che è, è vita, è morte, è amore, un amore in cui non c’è né soddisfazione né frustrazione. Sono questi i fatti, la realtà effettiva dell’esistenza. Tuttavia, una mente che è stata allevata, condizionata nelle diverse vie di fuga, trova straordinariamente difficile guardare in faccia ciò che è, e quindi si dedica per anni allo studio dei simboli e dei miti, sui quali sono stati scritti interi volumi, oppure si perde nelle cerimonie, o nella pratica di un metodo, di un sistema o di una disciplina.

E’ sicuramente della massima importanza osservare la realtà evitando di aggrapparsi alle opinioni o limitarsi a discutere il simbolo che rappresenta la realtà. Mi capite? Il simbolo è la parola. Prendiamo la morte. La parola ‘morte’ è il simbolo che viene utilizzato per trasmettere tutte le implicazioni della realtà del fenomeno: paura, dolore, uno straordinario senso di solitudine, di vuoto, di ristrettezza e isolamento, di profonda e duratura frustrazione. Tutti noi conosciamo la parola ‘morte’, ma sono pochi quelli che ne hanno veramente compreso le reali implicazioni. Non guardiamo quasi mai la morte in faccia né comprendiamo le cose straordinarie che vi sono implicite. Preferiamo sfuggirla rifugiandoci alla teoria della reincarnazione. Abbiamo queste spiegazioni confortanti, un’autentica moltitudine di idee, di asserzioni e negazioni, con tutti i simboli e i miti relativi. Osservatevi. E’ questa la realtà.

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Conosciamo la nostra sofferenza?

Quando c’è paura c’è la volontà di scappare; è la paura che genera tale volontà. Quando c’è ambizione, il tentativo di soddisfarla è alimentato da una volontà inesorabile. Finché c’è insoddisfazione, quell’inesauribile sete di appagamento che sperimentiamo incessantemente, indipendentemente dai nostri tentativi di estinguerla saziandoci in ogni modo, l’insoddisfazione stessa alimenterà la nostra volontà. Vogliamo che l’appagamento continui o cresca, e quindi c’è la precisa volontà di essere soddisfatti. La volontà in ogni sua forma, apre inevitabilmente le porte alla frustrazione, e la frustrazione è dolore.

Ecco perché c’è così poco sorriso sulle nostre labbra e nei nostri occhi, e c’è ben poca quiete nella nostra vita. Sembriamo incapaci di contemplare le cose con tranquillità e cercare da soli se si sia una via che conduce alla cessazione della sofferenza. Il nostro agire è il prodotto della contraddizione, con la sua tensione continua, che non fa altro che rafforzare il sé e moltiplicare la nostra infelicità. E’ lampante non vi pare?

Dopotutto, vi sto contrariando. Sto mettendo in discussione i vostri simboli, i miti, gli ideali, i piaceri, e tutte queste critiche non vi piacciono. L’unica cosa che vi interessa è fuggire, e quindi mi chiedete: “Insegnami a sbarazzarmi della sofferenza”. Tuttavia la cessazione della sofferenza non consiste nello sbarazzarsi della sofferenza. Non ci si può ‘sbarazzare’ della sofferenza, così come non si può acquistare l’amore. L’amore non è qualcosa che può essere coltivato con la meditazione, la disciplina o la pratica della virtù. Coltivare l’amore equivale a distruggerlo. Analogamente, non si può far cessare la sofferenza con un atto di volontà. Vi prego di rendervene conto. Non possiamo semplicemente sbarazzarcene.

La sofferenza è qualcosa che deve essere abbracciato, vissuto, compreso; bisogna acquisire grande intimità con la sofferenza. Ma non ci siete ancora arrivati, non è vero? Forse potreste affermare: “Conosco la sofferenza”, ma la conoscete davvero? L’avete vissuta completamente? Per dirla altrimenti, avendola provata, l’avete sfuggita? In realtà non conoscete la sofferenza. Conoscete soltanto la fuga dalla sofferenza.

Proprio come l’amore non è qualcosa che può essere coltivato o conquistato con la disciplina, allo stesso modo non è possibile far cessare la sofferenza con le diverse vie di fuga, ovvero le cerimonie, i simboli, il lavoro sociale dei ‘filantropi’, il nazionalismo o qualcun’altra delle orribili strategie inventate dall’uomo.

La sofferenza deve essere compresa

La sofferenza dev’essere compresa, e la comprensione non è basata sul tempo. La comprensione giunge allorché c’è un’esplosione, una rivolta, un incredibile rifiuto di ogni cosa. Ma vedete, cerchiamo di cavarcela a buon mercato attraverso l’assistenza sociale; ci perdiamo nel lavoro, nella professione; andiamo in chiesa, adoriamo un’immagine; ci aggrappiamo a un determinato sistema o credo.

Sicuramente tutte queste cose non sono altro che un modo di evitare la realtà, di allontanare la mente dal confronto con la realtà. Osservate semplicemente ciò che è non comporta mai dolore. La sofferenza non sorge mai dal contemplare la propria vanità. Tuttavia nello stesso istante in cui vogliamo tramutare la nostra vanità in qualcos’altro, ecco la lotta, l’ansia, la discordia, e infine tutto ciò genera sofferenza.

Quando amiamo qualcosa, siamo perfettamente attenti, non è vero? Se amiamo nostro figlio, lo guardiamo, contempliamo il suo viso delicato, gli occhi spalancati, lo straordinario senso di innocenza. Quando amiamo un albero, lo guardiamo con piena partecipazione. Tuttavia non osserviamo mai le cose con tale intensità.

Percepire il significato della morte richiede un genere di esplosione che scardina immediatamente tutti i simboli, i miti, gli ideali, le credenze consolatorie, cosicché siamo nella condizione di percepire la morte in modo completo, totale. Ma purtroppo credo che potrete tristemente constatare che non avete mai guardato nulla con tale intensità. Vi è mai capitato? Avete mai osservato vostro figlio con tutto il vostro essere, con la totalità di voi stessi? Lo avete mai osservato senza pregiudizi, senza approvarlo o condannarlo, senza dire o pensare: “E’ mio figlio”? Se mai ci riuscirete scoprirete che ciò che rivela un significato e una bellezza straordinari. A quel punto non ci siete più né voi né il figlio, ma ciò non significa un’identificazione artificiale con il figlio. Quando osservate qualcosa con la totalità di voi stessi, non c’è identificazione perché non c’è separazione.

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Paura della morte

Tornando alla morte, possiamo osservarla con la stessa totalità? Vale a dire, senza paura? E’ la paura, con la sua volontà di fuga che ha dato vita a tutti questi miti, questi simboli e questi credi. Se riusciamo a osservarla con tutto il nostro essere, totalmente, scopriamo che la morte ha un significato assolutamente diverso, perché non c’è paura. E’ la paura che ci spinge a chiederci se ci sia continuità dopo la morte, e la paura trova una risposta adeguata nella fede che ci sia o non ci sia qualcosa. Tuttavia, se osserviamo con pienezza quella cosa chiamata morte, non c’è tristezza. Dopotutto, cosa provo nel momento in cui muore mio figlio? Sono distrutto; è andato via e non tornerà mai più, e mi sento vuoto, solo. Era mio figlio, qualcuno in cui avevo investito tutte le mie speranze di immortalità, di perpetuare ciò che sono e ciò che mi appartiene. Ora che la mia speranza di continuità mi è stata strappata via, mi sento assolutamente disperato. Ecco perché odio la morte con tutte le mie forze: è un abominio, qualcosa che dev’essere messo da parte, perché mi espone a me stesso. E’ per questo che l’allontano con la religione, con le diverse vie di fuga. Ma in tal modo la paura si perpetua, producendo volontà e generando sofferenza.

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Non fuggire dalla realtà

Quindi la cessazione della sofferenza non può essere ottenuta attraverso l’intervento della volontà. La sofferenza può cessare solo nel momento in cui viene spazzato via ogni stratagemma inventato dalla mente per sfuggire alla realtà. Se vogliamo vedere realmente cos’è la morte dobbiamo lasciar cadere completamente ogni simbolo, ogni mito, ogni concezione e credo; quando lo facciamo è perché ormai è diventato un bisogno irresistibile. E cosa accade? Ci ritroviamo in una condizione particolarmente profonda, non accettiamo né neghiamo nulla, perché non stiamo cercando di fuggire. Stiamo affrontando la realtà. Quando affrontiamo la realtà della morte e della sofferenza con tale intensità, quando manteniamo tale intensità nei confronti di tutto ciò che ci tocca, istante dopo istante, scopriamo infine che c’è un’esplosione che non è generata dalla gradualità, dal lento scorrere del tempo. A quel putno la morte assume un significato completamente diverso.

La morte è il non conosciuto, proprio come la sofferenza. Non sappiamo cosa sia la sofferenza, non conosciamo la sua profondità, la sua straordinaria vitalità. Conosciamo la reazione alla sofferenza, ma non l’azione della sofferenza. Conosciamo la reazione alla morte, ma non l’azione della morte, ciò che implica; non sappiamo se sia orrenda o splendida. In ogni caso conoscere la natura, la profondità, la bellezza e la dolcezza della morte e della sofferenza equivale a giungere alla cessazione della morte e della sofferenza.

Vedete, la mente umana funziona in modo meccanico muovendosi nell’ambito del conosciuto, ed è con il conosciuto che ci affacciamo sul non conosciuto, sulla realtà della morte e della sofferenza. Può esserci un’esplosione, in modo che il conosciuto non contamini più la mente? Non possiamo sbarazzarci del conosciuto. Sarebbe stupido e assurdo, non ci porterebbe a nulla. Ciò che conta è non permettere che la mente venga contaminata dal conosciuto.

Tuttavia, tale non-contaminazione della mente da parte del conosciuto non può essere realizzata attraverso la determinazione, attraverso l’esercizio della volontà. Scaturisce dalla percezione della realtà così com’è, e possiamo vedere la realtà delle cose, la realtà della morte e della sofferenza, solo quando dedichiamo la nostra piena attenzione a ciò che stiamo osservando. Piena attenzione non significa concentrazione: si tratta di uno stato di assoluta consapevolezza in cui nulla viene escluso.

Quindi la cessazione della sofferenza consiste nell’affrontare la totalità della sofferenza, ovvero nel percepire cosa sia la sofferenza. In realtà ciò non vuol dire altro che lascia cadere ogni mito, leggenza, tradizione e credo, ed è qualcosa che non può essere fatto gradualmente. Deve essere abbandonato all’istante, ota. Non c’è un metodo per farlo; accade quando si concede la piena attenzione a qualcosa che si vuole comprendere, senza alcun desideio di fuga.

Conosciamo questo fenomento straordinario che chiamiamo ‘vita’ solo in modo frammentario. Non abbiamo mai penetrato la realtà della sofferenza, l’abbiamo soltanto vista di sfuggita; non abbiamo mai percepito la bellezza, l’immensità della morte: la conosciamo solo attraverso la paura e la tristezza. Possiamo comprendere la vita e il significato e la bellezza della morte solo quando la nostra mente percepisce in questo preciso istante ciò che è.

In realtà, nonostante le nostre differenziazioni, amore, morte e sofferenza sono la stessa identica cosa, perché di sicuro amore, morte e sofferenza appartengono alla dimensione del non conosciuto. Nel momento in cui conosciamo l’amore, abbiamo smesso di amare. L’amore è al di là del tempo, non ha inizio né fine, mentre la conoscenza li ha. Quando affermiamo: “So cos’è l’amore”, in realtà non lo sappiamo. Ciò che abbiamo percepito è solo una sensazione, uno stimolo. Conosciuamo la reazione all’amore, ma tale reazione non è amore. Analogamente, non sappiamo cosa sia la morte. Conosciamo solo le reazioni alla morte, e scopriamo il pieno significato e la profondità della morte solo quando tali reazioni cessano.

Ascoltatemi con attenzione, perché si tratta di qualcosa che è di vitale importanza per ogni essere umano, che si tratti di qualcuno che appartiene ai vertici della società o alle categorie più infime. E’ un problema comune, e dobbiamo conoscerlo così come conosciamo la fame, il sesso, e quell’attimo sublime che possiamo sperimentare nell’osservare le cime degli alberi o la vastità del cielo. Un tale attimo giunge soltanto quando la mente è in una condizione in cui non reagisce. Conoscere la morte è come tale attimo, perché la morte è il non conosciuto. Se non comprendiamo la morte, potremo passare tutta la vita alla ricerca del non conosciuto, senza mai trovarlo. E’ come l’amore, che ci è sconosciuto anch’esso. Non sappiamo cosa sia l’amore, né cosa sia la verità. Tuttavia l’amore non deve essere cercato, e neppure la verità. Quando cerchiamo la verità, si tratta soltanto di una reazione, una fuga dalla realtà. La verità è in ciò che è, non nella reazione a ciò che è.

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(Tratto da "Sul Vivere e sul Morire" - Jiddu Krishnamurti - Bombay, 10 Gennaio 1960)

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